giovedì 27 febbraio 2014

Le maschere che indossiamo


Fu nel 1994 che al cinema vidi The Mask con Jim Carrey. L'esilarante commedia, parodiando i cartoni animati, crea un'ambientazione fantastica diretta ad un pubblico giovane e sognatore.
Il fulcro del film è incentrato proprio su una maschera che può trasformare chi la indossa nell'estremizzazione dei suoi desideri e fantasie.
Durante il film il protagonista, guardando la TV, si sofferma qualche istante in un talk show dove uno psicologo presenta il suo libro intitolato "Le maschere che indossiamo" e questo piccolo dettaglio sin da allora mi ispirò una costante e profonda riflessione sull'argomento.

Nella mia personale teoria riguardo alla personalità e i rapporti interpersonali, le maschere sono un concetto metaforico molto importante. A mio modesto personale parere ognuno di noi, nessuno escluso, è in possesso di un variabile numero di maschere sovrapposte che va da un minimo di quattro ad un massimo incalcolabile.
Esattamente, penso che quelle quattro maschere siano imprescindibilmente presenti in ogni individuo pensante e che faccia parte di una realtà sociale. Ovviamente, tra questi "strati" possono essercene altri intermedi più o meno numerosi che possono prendere forma in funzione di ulteriori dettagli, che per ovvie ragioni di vastità non possono essere generalizzati.

Ogni persona ha delle insicurezze, delle apprensioni, pregiudizi e fobie. Queste peculiarità sono ciò che definisco nucleo. Al suo interno sono custodite le ferite de passato, i rimorsi, i rimpianti e i punti deboli, perché il nucleo è la parte più fragile e reale di ogni personalità e proprio per questo, istintivamente, nessuno lo mostra.

Ora, prima di tornare a parlare del nucleo, vorrei spiegarvi che a mio avviso ogni essere pensante è in grado di focalizzare la propria "identità" su un solo strato alla volta. Proprio come fossero dei canali televisivi, credo che non ci si possa "sintonizzare" su due canali contemporaneamente e questo perché la sintonizzazione non avviene in modo totalmente volontario, ma perché viene indotta dal contesto sociale predominante presente in quel momento.

Il nucleo, quindi, è la parte centrale dell'io. Privo di maschere, atteggiamenti e proiezioni, il nucleo è quella parte che si innesca solo quando siamo da soli e pensiamo. È proprio perché si manifesta quando non è presente nessuno che difficilmente si proferisce parola quando si è sintonizzati sul nucleo. Quando parlo dell'argomento mi piace dire che "siamo veramente noi stessi solo la sera, quando andiamo a letto, spegniamo la luce e iniziamo a pensare".

Basta quindi la presenza di un'altra sola persona per innescare le maschere?
Quasi.
Più che la persona in sé è il contesto cui quella persona è legata a innescare una maschera piuttosto che un altra. All'inizio ho parlato di quattro strati imprescindibili e vi illustrerò quali sono attribuendo loro i nomi dei contesti sociali che li innescano.

Il nucleo in realtà non fa parte degli strati, al massimo, per fare contenti i pignoli filo-matematici come me potrei definirlo lo strato zero.

Il primo strato è quello intimo. Viene innescato dalle interazioni con i partner di relazioni idilliache e, in rarissimi casi, da pochissime altre persone come i migliori amici pluriventennali o fratelli con cui si condivide un rapporto particolarmente fraterno. Quando entra in funzione la "maschera intima" i nostri difetti e le nostre insicurezze non sono affatto nascosti e persino quasi tutto ciò che pensiamo può essere detto senza girarci intorno. Ciò che differenzia questo strato dal nucleo è proprio l'interazione diretta con le persone che la innescano, l'amore e l'abnegazione nei confronti delle persone della nostra sfera intima ci portano a moderare le nostre azioni e i nostri pareri in funzione del sentimento che proviamo.
Non significa "mentire", significa avere particolare riguardo per il modo in cui verranno dette le cose e dover scegliere il momento giusto, questo perché le direttive principali del contesto intimo sono la sicurezza di non essere feriti e la premura di non voler ferire o di farlo solo per un bene maggiore.

Il secondo strato è quello confidenziale. Si innesca quando ci si trova all'interno di contesti abituali e si interagisce con persone che si possono reputare amiche. A differenza dei conoscenti, gli amici sono persone che scelgono vicendevolmente di frequentarsi e con cui spesso condividono interessi passioni, gusti e ambienti. Con queste persone si trascorre molto di quel tempo che viene definito "rilassante" e per quanto talvolta si possano verificare delle tensioni, il clima emotivo cerca sempre di riassestarsi infatti sulla tranquillità. La "maschera confidenziale" ha quindi lo scopo di presentare degli atteggiamenti stereotipati che permettano alle persone (e la loro personalità) di collocarsi in un posto preciso all'interno della struttura sociale della comitiva/contesto/gruppo. Se ci fate caso, quando si entra in confidenza con qualcuno si sarebbe capaci di scimmiottarlo bonariamente imitando alcune sue frasi tipiche, gesti comuni e intercalare ricorsivi. Questo strato stabilisce proprio l'identità sociale e permette di esprimere nel modo più comodo la proiezione di se stessi in relazione con le proiezioni altrui.

Il terzo strato è quello impersonale. Si innesca in contesti professionali, quando si interagisce con sconosciuti o quando siamo intimoriti o infastiditi da qualcosa. In queste circostanze si tende a non mostrare nulla di sé e si cerca di proiettare all'esterno un'immagine ben diversa da quella confidenziale. Il più delle volte si cerca di apparire autoritari, sicuri, gentili non servili e vissuti, in questo modo si induce agli sconosciuti un approccio "istintivamente" cauto e a sua volta impersonale.
La "maschera impersonale" ha una forte componente di linguaggio non verbale, quando ci si trova ad indossarla si fa molto caso alla propria postura, ai movimenti e alle espressioni facciali, i più estroversi tendono dissimulare o esagerare e i più introversi a limitare, ma in tutti i casi quando si è consci di essere sotto il giudizio altrui si cerca di nascondere il più possibile.

Il quarto ed ultimo strato in realtà non può essere realmente innescato, esso è sempre presente e più che una maschera indossabile è un modello su cui vengono allineate le altre maschere; mi piace definirlo strato proiettivo.
Chiunque ha modelli e idoli a cui invidia tratti caratteriali di cui non è in possesso, quegli stessi tratti che vengono più o meno simulati in ogni maschera su cui ci si sintonizza di volta in volta.
In questo modo, con il tempo e dopo vari tentativi, infatti, si riesce a fare propri alcuni comportamenti o atteggiamenti, il che spiega perché con il passare degli anni, quando si ripensa al passato, si può notare quanto si fosse diversi (in ogni strato). La "maschera proiettiva" è quindi quel contenitore dove vengono archiviate tutte le caratteristiche ideali che con il tempo vengono assimilate da altre persone, personaggi di fantasia visti in libri film o cartoni animati e che prima o poi si vorrebbero possedere.

In fine, parenti alla lontana della maschera proiettiva sono le maschere di immedesimazione, che possono essere di tipo emotivo, o ludico, ovvero la capacità di mettersi nei panni di qualcun altro all'interno di contesti emotivi o la capacità di impersonare personaggi più o meno diversi da se stessi in contesti ludici stabiliti come i videogiochi o fantasiosi come i giochi di ruolo.

A mio parere, stimolare le proprie maschere di immedesimazione aumenta la capacità di sviluppare spontaneamente più maschere intermedie tra gli strati e quindi di acquisire sempre più sicurezza negli innumerevoli contesti che si possono verificare.
In buona sostanza, credo che saper creare molteplici strati di maschere permetta un'ottima crescita interiore e una forte coscienza di sé e questo oltre a intensificare la fiducia in sé stessi garantisce una capacità sociale interpersonale talmente malleabile e adattabile da arrivare a minimizzare o persino evitare situazioni di stress o disagio.

mercoledì 19 febbraio 2014

Le basette alla Wolverine, l'impermeabile alla Matrix e l'arroganza.

Avete presente quelle persone che non riescono in alcun modo a distaccarsi dall'ovvietà?
Io le detesto.

Quelli che quando mi sentono parlare di wrestling mi chiedono "ma è tutto finto vero?".
Quelli che quando mi vedono con un trench di pelle esclamano "come Matrix!".
Quelli che quando mi vedono con i capelli corti mi chiedono "sei stato dal barbiere?".
Quelli che quando mi incontrano in spiaggia con tanto di costume da bagno addosso mi chiedono "cosa ci fai qui?".
Quelli che quando mi vedono portare un lungo paio di basettoni esclamano "come Wolverine!".
Quelli che quando mi incontrano quando sono in moto mi chiedono "è tua?".
Quelli che (in Sicilia) quando sentono il nome "Turi" mi chiedono "è il diminutivo di Salvatore vero?".

Sì, sì, sì e sempre maledettissimamente sì. Ebeti!

Queste menti limitate sono schiave dell'ovvio. Subiscono l'inconscia necessità di puntualizzare ogni argomento con questo tipo di interventi che possano fare da ancora nelle loro scontate sicurezze.
In buona sostanza possono vivere l'illusione di partecipare all'argomento ubicando se stessi in una posizione di volontaria estraneità pur fingendo interesse.
A cos'altro serve chiedere o esclamare qualcosa di scontato? Serve solo a "riempire" una discussione! A poter parlare di qualcosa o qualcuno per distogliere l'attenzione dalla propria posizione o quantomeno per prendere la rincorsa prima di poter azzardare un'opinione.

Credetemi, che essere "normali" dia quel comodo senso di protezione e sicurezza che permetta di non essere mai additati per primi o di non dover sostenere posizioni impopolari, lo comprendo. Per quanto io non ne condivida la scelta, riesco persino a carpirne il senso, se provo ad immedesimarmi in una mente meno brillante e meno sicura di sé.

Nel mio modo di vedere le cose, l'arguzia, l'estro, la libertà di espressione e il coraggio di proporre idee sono caratteristiche che rendono speciali le persone. Con questo non intendo dire che "essere speciale" debba essere un dovere o un'ossessione volontaria. Semplicemente trovo innegabile che chi per natura è estraneo alla normalità, si trovi in una condizione filosofica privilegiata.

Per quanto si possa girare su wikipedia, ad esempio, le persone su cui è stato fatto un articolo sono quelle che in qualche modo, nel bene o nel male hanno fatto la "differenza" in qualcosa.  Chi fa parte dei "normali" non può passare alla storia. Chi invece si è battuto per qualcosa di ingiustamente considerato normale è colui che "apre gli occhi" a tutti gli altri solo dopo che ha lottato e vinto "da solo".
L'emancipazione non è forse la liberazione da una condizione di inferiorità sovente imposta dalla "normalità" della società?

No, non intendo che pur di finire su un'enciclopedia, in televisione, sui giornali o sul web, qualsiasi stranezza sia lecita. Non intendo la notorietà come scopo ma come naturale conseguenza accidentale. Chi si da fuoco ai peli del culo per un attimo di notorietà non è speciale è idiota.
Idiota è chi basa la sua vita per essere diverso a prescindere, idiota è chi cerca nell'artefatta diversità l'unica propria caratteristica distintiva, idiota è chi non accetta le proprie VERE preferenze e non le sostiene orgogliosamente.

Attenzione il mio non è un attacco alla normalità, io non credo che essere normali sia un male. La normalità (o per meglio dire il conformismo) per definizione non può essere discriminante ed è nucleo naturale delle società. 
Nessuno può essere del tutto estraneo alla società, per quanto bizzarro possa essere in qualcosa, lo sarà sempre in confronto alla "normalità" della società in cui vive.

Ciò di cui vi sto parlando e che aborro con tutto me stesso sono le persone banali. Talmente qualunquiste, limitate e insicure delle proprie idee dozzinali da arrancare persino nel tentativo di conformarsi alla semplice condizione di "normalità". Riconoscerli è molto facile: quando possono non si esprimono e se sono portati a farlo sono spesso d'accordo con il più carismatico del gruppo. Insomma una sorta di insulto al concetto di "Sapiens Sapiens".

Sono cosciente di aver scritto questo articolo con arrogante presunzione, ma credetemi non mi sento il migliore di tutti. Conosco molta gente più intelligente di me, più acculturata, più ingegnosa e più libera dai preconcetti. Ma ne conosco (e ne vedo) fin troppa incapace di sostenere attivamente una conversazione con me.

Io non faccio altro che osservare e giudicare (impopolarmente) ciò che vedo.

P.S.
Questo post mi ha davvero combattuto, fino all'ultimo istante non ero sicuro di volerlo pubblicare a causa del contenuto estremamente antipatico.

lunedì 10 febbraio 2014

Il cieco, la sfera e l'ignoto

"Dio è per l'uomo esattamente ciò che sono i colori per un cieco dalla nascita: una cosa impossibile da immaginare."
- Donatien Alphonse François de Sade

Quando si parla di immaginazione, di fantasia o di sogni, si tende sempre a indicare qualcosa di astratto ed imprevedibile. Siamo portati a considerare l'immaginario come qualcosa libera dalle regole fisiche e dalla coerenza. Io, invece, credo che l'immaginario sia solo il modo di "mescolare e alterare ciò che conosciamo già".
Già migliaia di anni fa, culture antichissime narravano di figure mitologiche bizzarre: serpenti piumati volanti, creature metà umane e metà animalesche, cavalli a sei zampe e creature celesti con numerosi paia di ali.
Se notate, la base di qualsiasi "immagine" è sempre qualcosa di noto, che si tratti di un cavallo a cui "aggiungere zampe" o solo porzioni di cavallo da "montare" con altre porzioni di altre creature...
Questo perché per il cervello umano è impossibile immaginare qualcosa senza avere dei punti di riferimento che facciano da "ispirazione".

Il Marchese De Sade esprime il suo pensiero riguardo la comprensione di Dio paragonandolo al colore per un cieco dalla nascita, proprio perché quest'ultimo non può affatto comprendere il concetto basilare di qualcosa che per lui non esiste.

Nel 1884, ricalcando lo stesso concetto, Edwin Abbott Abbott scrisse un racconto "fantastico" intitolato Flatland. Il mondo in cui è ambientato il racconto è composto di due sole dimensioni e Abbot riesce a rendere il tutto abbastanza coerente e accattivante. Spiega che la pioggia arriva sempre da nord e che per questo motivo le case hanno l'entrata sempre al lato sud. Spiega che i maschi sono figure a più lati mentre le femmine sono linee e per tanto è possibile riconoscerle come tali solo da due angolazioni poiché appaiono come un semplice punto. Spiega la classificazione sociale in base al numero di lati di ogni individuo e l'intera cultura di questo ipotetico mondo piatto.

Il racconto inizialmente porta il lettore a "immedesimarsi" e gli impegna la mente nel trovare la coerenza nelle regole descritte. Il racconto prende un'interessante piega filosofica quando, messo a proprio agio il lettore, Flatland viene attraversata da una sfera.
La sfera proveniente da Spaceland cerca di spiegare l'esistenza della terza dimensione, ma gli abitanti di Flatland vedendo solo un cerchio (l'intersezione di una sfera su un piano) non la prendono per nulla sul serio e si sentono ovviamente presi in giro.
Il protagonista (un quadrato) decide invece ragionare "a mente aperta" e accetta l'eventualità della terza dimensione. Quando però inizia ad ipotizzare l'esistenza di mondi a quattro, cinque o persino a sei dimensioni, la sfera lo ferma e asserisce con assoluta sicurezza che le dimensioni sono solo tre e non possono assolutamente esisterne di più.
La sfera stessa finisce per cadere vittima dello stesso limite che inizialmente incontravano gli abitanti di Flatland ed è in questo modo che Abbott spiega al lettore come ogni certezza si basa su ciò che si conosce. Per l'essere umano è impossibile poter avere concezione di evenienze non percepibili.

Cosa significa?
Qualcosa che non può essere percepita è quindi inconcepibile a priori?
In realtà esiste la possibilità di accettare qualcosa "per fiducia" (o "fede", il concetto è identico).
Il colore rosso, per quelle persone che non lo hanno mai visto, è qualcosa di cui hanno sentito parlare molte volte e per quanto impossibile da capire, accettano la verità oggettiva della sua esistenza per "fede".

Ovviamente i casi di un mondo a due dimensioni o di un cieco dalla nascita sono degli esempi un po' estremi, ma le problematiche riguardanti la concezione dell'ignoto sono molto comuni e all'ordine del giorno.

Nell'ambito lavorativo, ad esempio, ogni professionista incontra spesso difficoltà a spiegare nello specifico i tecnicismi del proprio lavoro a chi non è del settore. Per me che sono un informatico, ad esempio, sarebbe impossibile spiegare a mia madre cosa sia un singleton, se quantomeno non le spiegassi prima e per gradi le basi necessarie per arrivare a quel concetto.

Persino nella vita di ogni giorno vi sono concetti basilari di cui non tutti dispongono. Può un rampollo di famiglia benestante conoscere la sofferenza di un orfano abbandonato? No. Non quella sofferenza.

Quindi chi non dispone delle "basi", non può giungere da solo alla comprensione di concetti a lui ignoti? Esattamente. A mio personale parere soggettivo, sarà sempre necessario un insegnante, o la volontaria esperienza personale, sia essa empirica o organizzata. 

La volontà di comprendere ciò che ci è ignoto non è un istinto universale. In linee di massima  l'ignoto tende a fare paura, a terrorizzare le menti meno brillanti e a porre quanto meno in condizione di prudenza i più curiosi. È l'estremizzazione di questo timore mutato in odio che spiega fenomeni quali il razzismo, il classismo, il maschilismo e tutte quelle discriminazioni che nascono proprio dall'ignoranza di quelle basi su cui si basa la condizione estranea.

Come ci si relaziona allora con "chi non conosce"?
Così come chiedo sempre spiegazioni per poter guardare gli argomenti da più prospettive, cerco sempre di dare le spiegazioni a chi vuol sentirle. Tuttavia ho imparato a non insistere con chi non ha l'intenzione di ascoltare e limitarmi a prendere atto del limite comunicativo che d'ora in avanti incontrerò con quelle persone.

mercoledì 5 febbraio 2014

Parere soggettivo o verità oggettiva?

A volte, quando chiacchiero mi capita di notare come per molte persone sia difficile scindere le argomentazioni di carattere oggettivo dalle impressioni di carattere soggettivo.
È naturale che ognuno di noi sviluppi gusti, simpatie, e sensazioni diverse.
Tutte queste belle cose fanno parte del nostro carattere, derivano dal nostro vissuto e influenzeranno ciò che ancora dobbiamo vivere. Sono proprio questi pareri soggettivi a renderci tutti adorabilmente diversi gli uni dagli altri.
Oltre i pareri però esistono anche le verità assolute, le considerazioni oggettive e le realtà inconfutabili. Questi “scomodi pilastri” ci finiscono in mezzo ai neuroni di continuo.

Molte volte i pareri personali, i gusti e le predisposizioni possono basarsi su complessi processi mentali talvolta inconsci e talmente radicati da risultare inspiegabili a parole.
Se a me piace il cioccolato e a voi no, non c’è modo di spiegarvi perché mi piaccia. Un gusto personale non è confutabile, semplicemente può essere condiviso così come può non esserlo. Di certo chiunque affronti l’argomento, a prescindere dal suo gusto, non potrà negarne le verità oggettive che vi stanno alla base ammettendo implicitamente che il cioccolato esiste, che piace a molti e che ne esistono numerose varietà.

Alcuni pareri soggettivi nascono e si sviluppano persino a prescindere dalla sicurezza di un’ipotetica verità oggettiva che ne permetta l’esistenza.
Ok questa potrebbe sembrare contorta.
Sto parlando della fede.
Esatto, nessuno può dimostrare che il dio della religione cristiana esista (così come nessuno può dimostrare che non esista) ma è proprio basandosi su questa impossibilità che milioni di persone credono “per fede”.
Non commenterò cosa penso della fede in questo contesto, quello che mi basta è che non posso non riconoscere alla fede la capacità di rendere inamovibile il parere soggettivo.

In altri casi ancora, alcuni pareri soggettivi vengono scambiati per verità oggettive.
Questi casi nascono solo a causa dell’ignoranza (la condizione dell’essere ignari) relativa alle reali verità che rendono il parere stesso del tutto infondato.
Ok anche questa era un po’ contorta.
Parlo dell’incoerenza.
Mentre la fede si basa sull’impossibilità di dimostrare tanto l’esistenza quanto l’inesistenza di qualcosa, l’incoerenza si presenta quando si perseguono convinzioni già smentite da verità oggettive esistenti.
Quando Galileo Galilei dimostrò che la terra è sferica (sì lo so è un geoide ma non puntualizziamo), non gli credettero mica subito! Moltissimi ignari dell’epoca continuarono a credere che la terra fosse piatta e morirono con questa incoerente convinzione. Allo stesso modo, tutt’oggi, molta gente crede nell’oroscopo nonostante sia stato dimostrato che le costellazioni (anche quelle zodiacali) non esistano. Molte persone continuano irrazionalmente a non accettare che quelle stelle apparentemente così vicine, siano in realtà separate da distanze astronomiche colossali e che la loro apparente vicinanza sia solo frutto della posizione prospettica.
Queste persone non sono solo incoerentemente convinte che questi gruppi di stelle esistano, ma che arrivino persino ad avere influenza sui caratteri e sulle attitudini dei nascituri.

Insomma sono consapevole di quanto delicato e spinoso possa essere questo argomento vi invito a rifletterci quando vi capiterà di assistere o partecipare attivamente ad un confronto.
Fatemi sapere se siete riusciti a distinguere le verità oggettive dai pareri soggettivi e come questo ha influenzato le chiacchierate.

sabato 1 febbraio 2014

L'odioso odio per l'ipocrita ipocrisia

Adam Soboczynski nel suo "Arte di non dire la verità" ci insegna i migliori metodi per mentire nelle varie situazioni, ci indica quali tecniche di recitazione saranno più efficienti e ci svela i trucchi per apparire autentici.

Immorale eh?
Neanche per idea.

Tutti mentiamo. Tutti.
Facile dire di odiare l'ipocrisia e disprezzare la falsità ma è altrettanto facile ammettere di essere falsi e menzogneri a nostra volta? È chiaro, c'è una grande differenza tra chi è bugiardo seriale e chi mente quel minimo indispensabile che la società ci impone come imprescindibile tributo, ma chi non ha mai risposto molto più diplomaticamente di quanto avrebbe voluto? Chi non ha detto cosa pensava di qualcuno solo quando la persona in oggetto non era presente? Ed in fine, chi non ha omesso o ingigantito del tutto un qualcosa per il solo piccolo innocuo gusto personale di rendere qualcosa meno grave o più sensazionale di quanto non fosse in origine?

Mentire è naturale ed ineviabile. Proprio come fare la cacca e tanti altri argomenti che risultano meno gradevoli da trattare esplicitamente.

Provate a riflettere un istante a cosa accadrebbe se in quelle determinate circostanze non mentissimo.
Quel nostro aneddoto farebbe ridere così tanto? Quella nostra motivazione sarebbe altrettanto legittima? Alcuni dei nostri amici lo sarebbero ancora? Il nostro rapporto con i nostri cari sarebbe lo stesso? Avremmo ancora il nostro posto di lavoro?
Nel 1997 il film "Bugiardo bugiardo" con Jim Carrey tentò di dare una risposta a tutto questo, e anche se lo fece rispettando le aspettative proprie di una commedia ha mostrato come persino i più irreprensibili hanno bisogno delle bugie quanto dell'ossigeno.

A volte per puro spirito di anticonformismo sperimentale provo a dire la verità quando non dovrei e vi assicuro che in quei casi la gente non mi dà mai del "sincero".
Sì, gli epiteti che prediligiamo per appellare chi abusa della sincerità spesso sono: stronzo, insensibile, merda, presuntuoso, arrogante, saccente, rottinculo, bastardo... e altre che potete immaginare da soli.

Mentite cari lettori, mentite! Fatelo responsabilmente ma non smettete mai di farlo se non volete che la vostra vita si riduca all'isolamento, e tenete a mente: non c'è cosa più ipocrita del dire "odio gli ipocriti".