mercoledì 23 luglio 2014

Orrorifica Gioventude

Lo sommo sdegno e 'l grande stupore,
oh tu donzella che sei in gioventude,
causi ci priva d'alcuno pudore,
quando lo alto bel cul tuo ti prude.
Mai noi vorremmo vederti in quell'ore
quando sei intenta a grattar la virtude,
possa aver tu prodigiosa pomata,
che da orrorifica muti te in fata.


-Turi Messina

Questa mattina per puro caso, in un gruppo whatsapp con amici abbiamo scambiato i consueti saluti del buongiorno usando un registro aulico. Recandomi in ufficio con la moto ho poi visto una ragazza dal fisico molto gradevole grattarsi il culo come il più rude dei marinai.
Questo mi ha ispirato e questo è il risultato.

giovedì 17 luglio 2014

La presunzione dell'indifferenza.

È da parecchio tempo che non scrivo sul blog.
Non perché non ne abbia avuto il tempo, solo che non ho avuto nulla di rilevante da dire.

Non avere nulla da dire è una condizione che non amo particolarmente, chi mi conosce sa bene quanto io parli.
Ma parlare e dire sono concetti assai distanti.

Così come per usare un luogo comune "tra il dire e il fare c'è dimezzo il mare".

Ma esistono cose di cui non si parla, non si dice nulla e nessuno fa niente? Sì. Migliaia.

Riflettevo su questa cosa proprio qualche giorno fa, quando per puro caso mi sono fermato a riflettere su un gesto comune che avevo appena fatto.
Con la peggiore delle espressioni di rabbia in viso avevo sbraitato in malo modo ad un uomo.
Un uomo più grande di me, che non ha mai smesso di sorridermi, che svolgeva il suo lavoro.

Mentre tornavo verso casa pensavo e ripensavo a quell'uomo.
Da quanto tempo faceva qual lavoro? Perché fa quel lavoro? Quanto guadagna? Quante sfuriate al giorno prende? Ci avrà fatto il callo o ogni nuova sfuriata pian piano lo ferisce sempre di più? Con chi vive? Ha una famiglia? Fa tutto questo per loro? Cosa fa quando non lavora? Cosa avrebbe voluto fare al posto di quel lavoro? Cosa sognava da bambino?

Insomma...meritava quel trattamento così brusco?
Da me, che dalla vita ho avuto tutto?

Quell'uomo è un lavavetri, e gli ho urlato rabbioso solo perché "ha osato" toccare con il suo utensile il mio parabrezza.
Perché siamo arrivati a questo?
Ci illudiamo che la schiavitù sia terminata secoli fa, ma non è così. Quell'uomo, così come gli altri lavavetri, i venditori di accendini e fazzolettini, le prostitute, sono tutti schiavi.

Nessuno di loro vorrebbe fare quel lavoro, ma DEVONO, sono schiavi di qualcuno che ne abusa. Qualcuno nega loro la libertà riccattandoli, ricattando i loro cari, minacciandoli in svariati modi.

Sono lì, li vediamo ogni giorno, il più delle volte li ignoriamo, quando costretti ad interagirci lo facciamo con fare scostante o indifferente e fugace.  Siamo abituati a dimenticarli, e non registrarli in memoria. Siamo abituati a fingere che non esistano.

Parliamo dei lavavetri come una piaga, come un fastidio, ma quanto è grave il nostro fastidio rispetto al loro dramma?

Se vedessimo un film in costume ambientato nell'antica Roma, in cui uno schiavo subisce una sfuriata per aver osato toccare un nobile ci sentiremmo superiori. Noi uomini evoluti del ventunesimo secolo riconosceremmo l'immoralità della schiavitù, affronteremmo un dibattito se necessario. Difenderemmo la nostra morale basandoci sul concetto assoluto di giustizia. Eppure, urliamo ad uno schiavo lavavetri solo perché osa toccare il nostro parabrezza.

Da questa esperienza ho imparato.
Ho riflettuto bene e ho realizzato che per quanto insistenti, quegli uomini sono soggiogati. Obbligati da qualcuno a fare un lavoro che non volevano fare. Io non ho nessun diritto di urlare loro.

Io ho il dovere di essere educato anche quando esagerano e la mia risposta deve essere un garbato "no grazie", perché se non posso fare nulla pr migliorare la loro situazione non voglio essere parte del loro incubo. Loro hanno diritto di scazzare, ne hanno più di quanto ne abbia io e se puliscono il mio vetro quando non l'ho richiesto, un educato "mi spiace" sarà di certo una risposta più civile che urlare loro come fossero bestie.

Non commetterò più l'errore di arrogarmi un inesistente diritto di superiorità sociale verso gente che fa una vita assai più dura della mia.